MAI SCORDARE, MAI DIMENTICARE CIO’ CHE E’ STATO

Percorso di ricerca, coordinato dalla prof. Bicego e svolto dai ragazzi della 4H in occasione del 70° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau a cura della Prof. Bicego

Anche Torino conserva luoghi legati alla deportazione: quella razziale ebbe inizio quando la Repubblica di Salò fece proprie le disposizioni antisemitiche naziste (novembre 1943); quella politica fu il risultato della repressione che la polizia nazista mise in atto contro gli oppositori politici, la Resistenza partigiana e gli scioperi operai del 1943-44
Avendo deciso di effettuare un viaggio della memoria in occasione del 70° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz.-Birkenau, abbiamo organizzato gruppi di lavoro per informarci su luoghi e percorsi dei deportati torinesi. Utili sono stati i materiali presenti sul sito dell’Istituto storico della Resistenza (http://www.istoreto.it/torino38-45) nonché i dati relativi i deportati piemontesi, presenti nella banca dati dell’Istituto (http://intranet.istoreto.it/adp/default.asp)
Dopo il lavoro di ricerca svolto in classe abbiamo deciso di recarci sui luoghi. L’uscita è servita come condivisione delle informazioni, in quanto ciascun gruppo ha esposto le proprie conoscenze alla classe.
Seguono le nostre osservazioni e alcune delle immagini scattate.

Osservazioni
“Durante questa settimana ci siamo concentrati su esperienze pre-viaggio di istruzione a Cracovia percorrendo strade e vedendo luoghi che, nel periodo nazista, gli stessi deportati avevano visto in condizioni decisamente peggiori.
Il tutto è partito dalla visita alla stazione ferroviaria di Porta Nuova da cui partivano i treni o meglio la carrozza trasportante i deportati. Ora il binario è uguale a tanti altri, ma durante quegli anni era un po’ come la barca di Caronte che portava dritto all’Inferno. Questi uomini, donne e bambini prima di arrivare alla stazione erano raggruppati nelle carceri Le Nuove in C.so Vittorio, nostra tappa successiva. Qui le emozioni più forti si sono fatte sentire. Stanze grosse qualche metro quadro, buio, freddo, cancelli e poi porte che non facevano passare aria pulita, non facevano passare vita. Percorrendo i corridoi qualche immagine mi passava nella mente e, oltre ad un grande freddo fuori, sentivo un grande freddo dentro. Le sensazioni che abbiamo provato provenivano dalla combinazione delle parole di Felice, la nostra guida, con ciò che vedevamo con i nostri occhi increduli e a volte un po’ spaventati.
Durante tutto il percorso non facevo altro che concentrare la mia mente sul suono dei passi che, in mezzo a quella polvere e a quel vuoto, rimbombava e sono convinta che anche loro, durante le notti insonni, non potevano fare altro che ascoltare l’eco degli stivaletti dei loro assassini un po’ come se fosse il rintocco delle lancette di quell’orologio in cucina che non ti fa prendere sonno la sera.
Nella strada tra Porta Nuova e Le Nuove, per scherzo, abbiamo raccolto delle rose che abbiamo poi deposto, al termine della visita, quando abbiamo acceso anche un lumino per ricordare tutte quelle persone che ingiustamente hanno perso la vita, non solamente durante il nazismo, ma anche in età contemporanea. La guida, ancora una volta ha usato parole forti e mirate che hanno suscitato in me commozione.
Il giorno dopo siamo andati al cimitero monumentale di Torino in cui sono sepolti, sia i corpi delle guardie e dei militari, sia degli ebrei. Prima di andare nella parte dedicata alle lapidi degli ebrei abbiamo sostato di fronte a due monumenti dedicati ai morti ignoti: uno contenente anche delle ceneri. Qui, oltre alla sensazione portata dal Cimitero in sé, lo stupore nel vedere un monumento così bello ci ha presi.
L’ultima tappa è stata la Caserma A. Lamarmora che però abbiamo visto solo da fuori parlando anche dei buoni propositi da parte del comune di Torino per poterla usufruire e mantenere in condizioni adeguate anche nel ricordo di chi, lì dentro, ha sofferto.
In conclusione posso ritenermi molto contenta dell’esperienza svolta che ha lasciato in me forti emozioni che saranno enfatizzate durante i giorni a Cracovia.” (Giorgia)

“Ci siamo divisi le schede che raccontavano la storia legata ad ogni posto visitato, ad esempio la stazione di Porta Nuova, l’albergo Nazionale o il carcere delle Nuove. I racconti e i particolari scoperti nel corso di questa giornata (come la targa interna a Porta Nuova o il binario dedicato alla deportazione) hanno risvegliato il nostro interesse alimentando la conoscenza della storia della nostra città.
Un’esperienza decisamente toccante è stata affrontata al carcere, dove abbiamo seguito il professor Felice alla scoperta degli orrori e delle condizioni agghiaccianti vissute da uomini, donne e bambini durante il periodo nazista. Il clima estremamente freddo all’interno della struttura rispecchiava quello emotivo provato da noi allievi nel sentir raccontare gli avvenimenti accaduti in quelle celle buie, allora sovraffollate e fredde. La condizione di queste stanze era chiaramente drastica: dieci persone rinchiuse in uno stanzino di 2 metri per 3, dove il letto era fatto di assi di legno (e cosi il cuscino) e il bagno consisteva in una tubatura con un’apertura di circa 7 cm di diametro. Non solo, erano esposti reperti come le divise degli ufficiali e un pigiama a righe di un prigioniero, oppure un letto dotato di ceppi e buco centrale dove i prigionieri da punire venivano legati per giorni. Questi racconti dimostrano come negli anni ’40 del XX secolo le persone vittime della discriminazione, razziale o politica, abbiano perso la loro identità subendo un trattamento disumano e decisamente ingiusto. Queste esperienze hanno procurato a noi partecipanti un senso di rabbia per le ingiustizie e di compassione per i poveretti che le hanno subite, facendoci comprendere come devono essere stati quegli anni per molte famiglie e preparandoci mentalmente per il giorno della memoria.” (Isabella)

“Con la classe abbiamo svolto un’uscita per conoscere meglio i dettagli delle deportazioni razziali durante la seconda guerra mondiale, in previsione del viaggio di istruzione a Cracovia. Innanzi tutto abbiamo letto dei testi e inseguito siamo andati a svolgere un percorso lungo le tappe significative della deportazione nella città di Torino.
Ho trovato molto interessante la visita a certi palazzi nel centro (palazzo Campana, piazza Cln, albergo Nazionale…), perché non avevo mai prestato molta attenzione a essi e mi è piaciuto conoscerne meglio la storia, così da apprezzarli maggiormente.
La visita al carcere le Nuove l’ho trovata molto interessante in quanto non ero mai entrata in un carcere e mi ha fatto capire come davvero venivano trattati i prigionieri durante quel periodo e grazie alla guida sono venuta anche a conoscere molti dettagli della vita in carcere odierna, di cui conosco poco e niente. In particolare ho apprezzato la guida perché metteva molto impegno nelle spiegazioni e ho notato che, all’entrata dove c’era il cancello, mentre raccontava la storia di una deportata si è commosso nonostante abbia raccontato innumerevoli volte ciò che accadeva nelle carceri, questo lo trovato molto dolce e ammirevole.
Ho trovato molto interessante anche la visita al cimitero monumentale , ma meno la parte del cimitero ebreo, inoltre mi sarebbe piaciuto soffermarmi di più sull’aspetto artistico del cimitero. Mi ha commosso la vista delle tombe dei partigiani e delle persone ignote che sono morte durante la guerra, e ho trovato molto bella la struttura di queste tombe la loro essenzialità mette in primo piano l’importanza del deceduto.” (Silvia)

“Lunedì 12 Gennaio abbiamo fatto parte del percorso relativo la Torino della deportazione. La tappa principale e emotivamente più forte è stata la visita alle carceri “le Nuove”. Abbiamo visitato in particolare il settore femminile che è anche l’unico rimasto intatto e con tutte le strutture originarie. Facendo la strada attraverso i corridoi e le piccole stanze che portano alle celle si percepisce la tensione del luogo, il silenzio e il freddo che si fa sempre più pungente man mano che si entra nell’edificio. Forse queste sensazioni possono essere state condizionate dalle nostre conoscenze e dalle informazioni che ci dava la guida rispetto a cosa succedeva in quei luoghi, sia a livello tecnico di organizzazione che a livello umano. Fa impressione, almeno a me, pensare che in uno spazio ora così vuoto, diviso e limitato ci siano passate centinaia, forse migliaia, di persone tra cui bambini, anche nati tra quelle mura. La guida ci ha fatto capire che anche in un periodo e in un ambiente così ostile c’erano persone che di nascosto e nel loro piccolo aiutavano gli altri, ho avuto la piacevole impressione e conferma che c’è sempre stata speranza anche per chi poi è stato ingiustamente ucciso, le persone che lottavano per la propria opinione, che segretamente era quella collettiva, non hanno mai perso la dignità nonostante i nazisti ci provassero perché loro hanno combattuto per rendere la nostra epoca migliore della loro e non si sono abbassati alla crudeltà approvando il governo nazista. Molte più persone dovrebbero conoscere ciò che avveniva nelle carceri o nella Caserma di Via Asti e dovrebbero sapere quanto hanno sofferto i partigiani, uomini e donne, che sotto tortura non hanno mai rivelato niente. Oggi non esiste più quel tipo di coraggio, questo anche perché forse non ce n’è più la necessità, ma di sicuro non va dimenticato. E’ stato un bel percorso formativo in preparazione al viaggio ad Auschwitz, così andremo lì per ricordare anche i torinesi deportati insieme alle migliaia di persone che sono decedute in quel campo di concentramento.” (Martina L)

“Oggi ci siamo permessi di entrare nella Torino degli anni 40. Lo abbiamo fatto in silenzio, con gli occhi chiusi alle volte, perché l’immaginazione faceva comunque troppo male; abbiamo sentito il freddo entrarci nelle ossa, immaginato con l’udito i pianti, le preghiere e i lamenti degli uomini e delle donne e dei bambini innocenti che hanno abitato le celle del carcere di Torino.
Alla stazione di Porta Nuova abbiamo ripercorso il tragitto dei deportati, che arrivavano a piedi dal carcere per partire verso chissà dove. Con lo sguardo volto verso i binari, dove ormai la vista scarseggia ho potuto immaginare le carrozze che sparivano.
Al carcere Le Nuove ci ha accolto un uomo per bene, un uomo colto, con mille ricordi negli occhi e la passione per raccontarceli, ancora…chissà quante volte li ha raccontati. Nonostante il disagio e la paura di entrare dentro quegli spazi, ne siamo usciti tirando un grande respiro di sollievo, non perché non aspettassimo altro che uscirne, ma perché da quel momento ci siamo presi la responsabilità di conservare e rispettare le storie degli uomini e delle donne passati di lì, storie che fa paura raccontare e che quasi ti prendi il diritto di serbare in segreto.
Mi ritengo sollevata per il comportamento che tutti abbiamo avuto, semplicemente un atteggiamento dignitoso e rispettoso, questo significa che in ognuno di noi c’è la coscienza per affrontare con delicatezza anche le tragedie.
L’idea di andare al cimitero monumentale ad essere sincera immediatamente non mi aveva entusiasmata, sarà perché non ho mai avuto l’insegnamento di andarci nonostante ci sia chi merita un saluto… invece, oltre alla bellezza scultorea delle lapidi e delle tombe di famiglia, alla fine anche li mi sono ritrovata a pensare in silenzio, con un po’ di amarezza, abbastanza dispiaciuta…tutti quei blocchi con migliaia di nomi, nessuna foto, pochi fiori. Certo, é inevitabile ritrovarsi di fronte alla realtà che nel dolore tutti siamo uguali, siamo esseri umani, abbiamo lo stesso spazio in centimetri per il nostro nome, lo stesso marmo, né più bello né più brutto di un altro. Il cimitero ebraico anche mi ha molto colpito, sì perché, fino ad oggi non sapevo che per commemorare le tombe dei deceduti non si portassero fiori ma pietre, nemmeno un fiore, zero.
Vivere questi fatti a mani nude, ti permette di capire veramente, di importi di portare rispetto, di ricordare sempre. Sono molto colpita (positivamente s’intende) per questa esperienza fatta e la porto dentro di me, preparandomi ai sentimenti che proverò durante il soggiorno a Cracovia chissà, forse dopo questa esperienza sentirò un po’ meno male.” (Irene)

“Mercoledì, un giorno qualunque per noi, ma pieno di ricordi, testimonianze e sofferenza. Durante la visita alle carceri Le Nuove di Torino, abbiamo potuto ripercorrere la strada dei detenuti dell’epoca. È un percorso di reclusione, sofferenza e tristezza, quasi trasmessa a chi osserva, dalle anime delle persone là decedute. Anime senza pace si infliggono su voi, osservatori che vedrete e coi vostri occhi cercherete di immaginare quello che purtroppo è accaduto. Vi erano molte altre stanze oltre nelle carceri suddivise su tre livelli, quella riservata ai bambini, alla cucina, e cosi via. A fine percorso abbiamo raggiunto la zona più significativa, quella dove ogni due o tre giorni 10 persone alla volta, prese tra i detenuti scelti a caso, senza pudore e con molta vigliaccheriaa, venivano fucilate, una ad una alle spalle di un muro. Questo muro di primo impatto ti trapassa nello spirito, e subito dopo ti fa rivivere immaginando le scene, il momento dello sparo del fucile verso di te, all’apice, al muro, senza via di fuga. Toccante e memorabile, se seguito con il giusto criterio, cercando realmente di RIVIVERE gli episodi e i momenti, partendo da zero.
Ho acceso una candela in ricordo e tutti abbiamo fatto un minuto di silenzio.
Quando siamo andati invece al cimitero, dopo aver superato una torre siamo arrivavi nel primo ampliamento, per raggiungere il campo della Gloria, zona dedicata alle anime delle vittime dei campi di concentramento, dei partigiani, dei soldati. Qua è possibile vedere le ceneri di deportati, contenute in una cassetta sigillata. Mi ha fatto effetto vederle da quella distanza ravvicinata e forte è stato il messaggio che è arrivato in me. Credevo di esser faccia a faccia con quegli uomini, pieni di sofferenza, coraggio, ma anche paura. Me li sono immaginati di fronte, viso a viso, che ci guardavamo negli occhi e in pochi secondi mi venivano in mente tutti gli episodi e i sentimenti provati. Forse per questo ho provato un forte impatto con il contenitore delle ceneri. Abbiamo concluso il percorso con le tombe dei soldati e dei resistenti, la maggior parte erano ragazzi tra i 20/30 anni, tombe prive di foto, alcune anche dell’identità.
Usciti dal cimitero e ci siamo diretti verso l’ultima tappa, la caserma di via Asti dove venivano eseguite le pene di morte e spesso anche torture. Una caserma che se vista oggi puó sembrare ignota agli occhi di chi non sa, ma che se compreso ciò che c’è sotto, è piena di dramma e amarezza.
Una visita non delle più allegre, ma che necessitano di essere fatte per una cultura migliore ed un futuro migliore. (Jacopo)

“L’uscita relativa alla deportazione a Torino l’ho trovata molto interessante e costruttiva ,in quanto mi è servita a capire in prima persona cosa accadde e cosa provarono gli ebrei durante quegli anni.
La vista alle carceri di Torino è servita ancor di più per immedesimarsi nei deportati , grazie soprattutto ai racconti del signore che ci ha accompagnato.
Credo che queste uscite siano state un’ottima esperienza che ci ha preparato per la visita ad Auschwitz.” (Giada)

“Tante volte non ci rendiamo conto della vita, viviamo ma non sappiamo apprezzare quello che ci è stato dato fino al momento che non ci viene strappato. Inizi allora a pensare a tutte le piccole cose importanti che possiedi, che non sono materiali, ma che sono i sorrisi dei tuoi figli, le risate in famiglia e l’amore. Ma quando tutto questo ti viene tolto la domanda sorge spontanea “cosa sono ora?”; non sei più un fratello, una madre o una semplice vicina di casa che guardava i bambini giocare nel cortile del condominio.
Non sei nulla, la tua identità viene annullata, sei solamente un essere in mezzo al nulla, uguale agli altri. Questo è quello che è successo ai prigionieri delle carcere “Le Nuove”. Famiglie distrutte per cosa poi? Perché erano ebrei.
Andando a visitare le carceri ho cercato di immedesimarmi nelle donne rinchiuse e torturate lì dentro, a cui è stato portato via il loro bambino, la loro ragione di vita. È stato triste pensare a quanto crudele possa essere l’uomo.
La cosa che mi ha toccato di più è quando sono scesa nei sotterranei dove erano riportate alcune frasi dette dai prigionieri ed era straziante leggerle perché ti rendi conto che loro stavano vivendo gli ultimi attimi della loro vita. Avrebbero lasciato questo mondo senza salutare nessuno, senza vedere i propri figli crescere, senza poter invecchiare insieme alla propria consorte.
Eppure è successo, e io sono amareggiata per cosa la mente umana è capace di fare.” (Rebecca)

La visita alle carceri Nuove e il ripercorrere i luoghi della deportazione per Torino é stata un’esperienza un po’ particolare dal punto di vista emotivo. I miei compagni come se fossero delle guide turistiche, andando nei vari luoghi simboli della deportazione, mi hanno arricchito su temi toccanti. Per quanto invece riguarda le carceri, l’atmosfera é totalmente diversa, ovvero la guida che ci ha fatto ripercorrere i luoghi in cui si sono consumate scene raccapriccianti mi ha coinvolto molto. La guida nel modo in cui raccontava le vicende riusciva a ricreare un’atmosfera che faceva venire i brividi. E poi l’ultimo momento, quello delle candele davanti cui abbiamo fatto un minuto di silenzio per tutte quelle persone uccise ingiustamente, anche quello molto emozionante e commovente. In conclusione vorrei aggiungere che l’esperienza fatta mi ha fatto veramente capire quanto orrore si é consumato in quegli anni e soprattutto all’interno di quel carcere” (Martina B)

“La classe 4H in preparazione al soggiorno a Cracovia si è interessata della deportazione a Torino ed abbiamo pensato, insieme alle professoresse Bicego e Cervetto, di ripercorrere la strada che hanno fatto i deportati a Torino per poi partire per i campi di concentramento.
La prima tappa è stata la stazione di Porta Nuova dove abbiamo osservato la targa a ricordo dellla deportazione, qui aveva inizio il viaggio dei deportati.
La parte più emozionante di quella giornata è stata la visita ai carceri Le Nuove, qui abbiamo acceso una candela in memoria dei deceduti e in quel momento mi sono emozionata e mi sono resa conto che noi abbiamo tutto e se ci manca qualcosa ci lamentiamo, mentre alcuni rinchiusi in una cella al buio, a volte anche da soli, senza parlare con nessuno, con poco cibo e acqua sono riusciti a sopravvivere. Aspetto con ansia il viaggio a Cracovia, faremo una bellissima esperienza che forse non avrei mai provato da sola e rivivremo alcune delle sensazioni dei deportati.” (Lucrezia)

Oltre quelle mura…
“E’ difficile dover scrivere dell’esperienza al carcere, so per certo che rivivere quel momento sarà emotivamente intenso. Mi ha fatto male, mi ha segnata più di quanto avrei osato pensare.
Appena oltrepassato il cancello cambiai modo d’essere, assunsi l’aria di una persona severa e seria. Era fondamentale che questa volta, a differenza delle altre, prendessi una posizione di distacco dalla realtà nella quale stavo per immergermi, riuscendo comunque a inglobare e apprendere quello che la nostra guida avrebbe raccontato. Quello che accadde dopo fu ritrovarmi in uno stato d’animo di incertezza dato che sono una persona che crede sia preferibile entrare dentro ad ogni circostanza e storia, ma qualcosa continuava a dirmi che era doveroso da parte mia rispettare colore che in quel luogo avevano trovato la morte e non dare libero sfogo all’immaginazione. Ciò nonostante ricordo di essere stata travolta da un carico di percezioni, per me di indefinibile natura, in grado di giocare un ruolo importante nella comprensione di vicende lontane (i rastrellamenti) e presenti. Temo che se mi fossi fatta trasportare dalla fantasia e dai sentimenti non sarei stata capace di guardare con occhio critico quella muta e passata epoca che lì si era fermata a regnare, la guerra. Questo se fosse successo avrebbe dato inizio solo ad una irritante e intollerabile compassione.
Ad ogni modo, inizialmente, ci furono dei calorosi saluti e delle frettolose strette di mano rivolti al signor Felice, il Virgilio della 4^H, che con fare interessato e incuriosito ascoltava senza interruzione chi parlava, presentando alla classe la storia dell’edificio in cui eravamo stati accolti.
Dopo di che, percorrendo il breve tratto di cortile che portava ad una delle diverse entrate del carcere (a noi interessava quella corrispondente al braccio femminile) venimmo invitati a fermarci di fronte ad una serie di fotografie ingrandite in bianco e nero di alcuni detenuti, dico alcuni perché per ovvi motivi era quasi impossibile che ci fossero tutti, ma questi ultimi vengono simbolicamente ricordati da una cornice che chiude la fila di immagini e che in sé raccoglie un foglio bianco: una infinita, ma non visibile continuazione.
La porta che permetteva l’accesso alla frazione di carcere era piuttosto lugubre e inaspettatamente piccola, l’unico materiale che lasciava pensare a quanto essa fosse nel complesso imponente era il ferro. Il fatto che l’ambiente fosse disabitato rendeva il clima più tranquillo, ma il freddo come fosse un bambino esaltato non si fece aspettare e abbracciò senza timori i nostri organismi. Credo che fosse questo fenomeno atmosferico il custode delle celle, l’amico fedele di Felice, il testimone dei ricordi che tutto ci rivela purché venga visto attraverso gli occhi dell’anima.
Ora vorrei riflettere su un particolare, certo, chiamarlo particolare è riduttivo perché si tratta del carcere intero, di ogni centimetro cubo di cemento e perdita, ferro e male, terra e paura. Mi chiedo come si sia sentito il signor Giuseppe Polani ad aver progettato una struttura del genere. Come ha fatto ad accettare una proposta simile? Ha persino avuto il coraggio di studiare la funzionalità degli spazi e ha persino avuto la geniale idea di fare le “finestre a bocca di lupo” in modo tale da poter scorgere solo il cielo. E’ stata una scelta ipocrita, ma qualcosa mi suggerisce che chi invece aveva il potere in mano trovava quegli spicchi celesti un’invenzione dall’aria poetica.
Vien da dire che il coraggio possa avere sfumature diverse perché c’è chi opponendosi al regime ha detto no e ha perso la vita per offrire un futuro civile ai prossimi a venire e chi ha detto sì alla costruzione materiale di un tale orrore come il carcere.
Qualcuno si svegliò la mattina e decise di voler uccidere, lo fece. Qualcuno si svegliò la mattina, si sentì quasi in obbligo di farlo, entrando per l’ennesima volta nella sua realtà quotidiana: di certo non immaginava che fosse la sua ultima volta. C’è chi manda avanti la propria esistenza compiendo i doveri ricevuti nel tempo e chi decide che l’esistenza debba cessare di esistere compiendo quello che un dovere non dovrebbe mai essere: uccidere. Questo ragionamento nasce da tre frasi che vidi scritte e illuminate di piccole luci a led su dei pannelli anonimi: la prima era il pensiero di una donna la quale diceva che era sconvolgente morire senza aver fatto del male a nessuno, la seconda, la più amara, diceva che nel carcere venivano uccisi i sogni e la terza era parte di una lettera d’amore dove un uomo sconosciuto informava la moglie di essere stata l’unica donna con la quale avesse mai immaginato una vita felice e l’unica ad avere mai amato. Come sarebbe andata se queste persone non fossero mai morte? Dove saremo noi ora se quei sogni soppressi si fossero realizzati? C’è davvero bisogno di pagare con la propria vita per darne una migliore alle nuove generazioni?
E’ mio compito ringraziare questi innocenti forti e decisi a parlare (tale coraggio lo possiedono in pochi) perché buona parte della persona che sono oggi è merito loro. Se mia madre mi ha donato la vita essi subito dopo il primo respiro mi hanno dato la libertà.
Grazie, tenterò di comportarmi come avete fatto voi con me dovesse presentarsene il bisogno!
È bello che ci siano persone come FELICE capaci di narrare, con forte sentimento, quello che hanno saputo da altri e indichino una via verso l’accettazione e il superamento dignitoso dei periodi neri della storia.
Mai scordare, mai dimenticarsi coloro la cui morte ha fatto nascere il terzo millennio. Essi giacciono in scatole di marmo con sopra inciso un nome su cui ogni tanto appesi si trovano dei fiori artificiali. E’ in questa maniera che Torino ha voluto ridare dignità a chi l’aveva perduta in una cella o in un campo di sterminio” (Kristina)

Testimonianze:
La testimonianza di Felice

“Arrivammo al carcere e fummo accolti da una figura particolare, un certo Felice di nome. Strinse la mano ad ognuno di noi, uno ad uno, con immensa passione e trasmettendo un senso di bonarietà immenso, complimentandosi e facendo brevi commenti per ognuno di noi. Si meravigliava soprattutto della presenza delle rose, chiedendone la provenienza che sarà però celata e, subito dopo, vedrà che queste saranno volontariamente deposte vicino ai lumi in onore dei caduti. Iniziammo il giro sul corridoio che vedeva il filo spinato e le torri di controllo e poi le doppie file su entrambi i lati di questo e una sfilza di foto di giovani morti all’interno del posto, uno dei quali risparmiò e consegnò tutti i risparmi alle figlie che il giorno dopo furono private di quel poco dai tedeschi, e lui pianse e morì e stette male per loro, non per se stesso.
Entrammo nel posto, al chiuso, e lui descriveva minuziosamente ogni carattere, volendoci far entrare con l’animo, anzi, volendo far entrare il carcere in noi, parlandoci di storie e testimonianze.
Raccontava di coloro che dovevano aprire e chiudere le porte quotidianamente senza possibilità di leggere, parlare o informarsi e vedevano persone senza un’espressione in faccia, apatiche, vuote, già morte ed io, immedesimandomi in questi, pensai immediatamente che difficilmente si potrebbe vivere, difficilmente potrei vivere senza informazioni, senza condivisioni, vedendo quotidianamente e costantemente la stessa cosa, perlopiù tragica e di pessimo gusto.
Ci voleva far sentire lo scalpitio dei piedi scalzi o far riflettere su tutte le persone che maledissero questo posto, che si uccisero e si tagliarono per la disperazione o per la conferma della loro stessa esistenza. Voleva ricordarci che l’unico compagno, l’unico specchio di un detenuto senza colpe era appunto la cella, e lei sola, e a questa s’affidavano per tirare avanti.
Parlava con il capo chino e con la mani raccolte, raccontava delle opere di bene d’una suora, che insegnava e faceva lezioni di scuola elementare, ci raccontava delle prigioni femminili in cui venivano rinchiuse quattro donne per cella o di quelle maschili in cui stavano in dieci e si scaldavano solo con i respiri, essendo di ogni nazionalità, senza conoscersi e senza capirsi, essendo obbligati a condividere un ritaglio di vita. Le celle avevano tre piani, la difficoltà di chi “abitava” all’ultimo sorgeva nel momento d’un ipotetico malanno, questi avrebbero dovuto aprire le due porte di sicurezza solo dopo aver fatto scendere il malcapitato che, durante gli orari in cui non si facevano i controlli, non poteva neanche farsi venire in mente di gridare, nessuno lo avrebbe soccorso. Faceva freddo in quel posto, più freddo all’interno che all’esterno e non si poteva immaginare come stessero loro con una giacchetta, senza poter protestare poiché sarebbero stati picchiati se non uccisi. Un letto in legno con il buco per cagare, una tomba per gli imprevisti, delle macchine da lavoro, le due mensole nelle celle per gli oggetti personali per tutti coloro che abitavano quella cella o ancora l’asilo in cui i bambini facevano con la creta case, cuori, rose, oggetti che ricordassero le madri che, dopo tre anni, erano per legge obbligate ad abbandonare il figlio.
Sul presente ci parlò esplicitamente del terrorismo mafioso che viviamo in Italia, raccomandandoci di aprire gli occhi. Le frasi che lasciarono i morti erano tristissime, quella che ricordo a memoria diceva: “Mi hanno negato il perdono e fra due ore sarò fucilato: pregate per me, zia.” Oppure “Mamma adorata, sii fiera di tuo figlio che diede la vita per un giusto ideale che presto splenderà alla luce di una grande vittoria”.
Alcuni miei compagni si commossero, piangevano, io ascoltavo fermamente e con curiosità e m’immaginavo il quadrilatero in cui succedevano sparatorie e con idranti e pompe ad alta pressione cacciavano i prigionieri nelle celle e questi lanciavano cocci di vetro o mattoni fuori dalla prigione per far render conto al popolo della situazione di disagio che vivevano. Questi infatti, al momento dell’edificazione del carcere, erano in un quartiere di campagna, la prigione sorse in questo punto perché meno costosa e lontana dagli occhi dei figli dei ricchi, che, purtroppo, abitavano comunque poco lontano da lì. Lasciammo le rose vicino ai lumi e alle pietre incise degli ebrei, Felice camminava lentamente ed era soddisfatto della nostra serietà, del nostro impegno nel cercare di vivere e capire ciò che aveva da raccontarci, anche se mi par strano che poi, in una classe, gli umori e i principi e i modi di fare si ribaltino come se quello non fosse altro che un breve impegno al quale sottostare. (Niccolò)

Documentazione fotografia

 

 

 

 

 

 

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